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Etichette alimentari: consumatori obbligati a districarsi tra bufale e fake news

La ricercatrice Maria Vincenza Chiriacò (CMCC), illustrando i risultati di un recente convegno, spiega cos'è il grande inganno del "senza"

Nessun prodotto alimentare che acquistiamo è privo di etichetta. Su queste etichette pare esserci dettagliatamente riportato tutto quel che riguarda il prodotto senza tralasciare il minimo dettaglio. Ma abbiamo la certezza che, leggendo quei dati, possiamo ricevere tutte le informazioni complete e corrette sulla composizione del prodotto, sul suo essere più o meno salutare, nonché sull’impatto ambientale che la sua produzione ha determinato? La risposta è negativa. Lo dimostrano i risultati emersi durante il convegno tenutosi il 21 marzo scorso alla Camera dei Deputati, un evento che recava l’emblematico titolo “Fake news e bufale nelle etichette alimentari – Il grande inganno del “senza”. Abbiamo analizzato il problema con una delle relatrici al convegno stesso, la Dott.ssa Maria Vincenza Chiriacò, ricercatrice presso il Centro Euro-Mediterraneo sui cambiamenti climatici (CMCC).

Quali sono i punti principali toccati durante il Convegno?

“Il convegno era incentrato sulle etichette dei prodotti agroalimentari viste da un ampio punto di vista e andando a esaminare gli impatti sulla salute. In particolare, io sono stata chiamata a esporre la parte relativa agli impatti ambientali. Obiettivo del convegno era comprendere il messaggio che arriva ai consumatori leggendo un’etichetta. L’utente, insomma, dall’etichetta riesce a capire qual è realmente l’effetto del prodotto sulla salute e anche l’impatto ambientale nella produzione di prodotti agroalimentari? Quasi mai”.

Cos’è il grande inganno del “senza”?

“Uno dei claim che si trova sempre più frequentemente sui prodotti alimentari è quello del “senza qualcosa”. Ci siamo chiesti quale messaggio portasse questo “senza qualcosa”. Dal dibattito è emerso che non c’è grande consapevolezza nel consumatore finale. Uno degli altri relatori ha portato l’interessante esempio degli alimenti senza glutine. In Italia ci sono 500mila persone con diagnosi di celiachia. Eppure, ogni giorno un milione e mezzo di italiani acquista prodotti senza glutine, perché non ha la corretta percezione di cosa significhi “prodotto senza glutine”. Dunque un milione di italiani ritiene che acquistare un prodotto senza glutine significhi acquistare un prodotto più sano. In realtà così non è, perché per poter sostituire il glutine vengono aggiunti altri additivi alimentari che spesso sono anche più grassi, o comunque hanno altri effetti sull’organismo. Se una persona non ha la necessità di acquistare un prodotto senza glutine perché non ha la celiachia, non ha senso che lo acquisti: spesso, addirittura, questi prodotti sono più calorici dei prodotti con glutine. Dietro il claim “senza” si nasconde quindi spesso una scarsa consapevolezza da parte dell’acquirente di quel che sta comprando”.

Lei ha analizzato in particolare gli impatti che l’agricoltura ha sull’ambiente. Cosa è emerso da questo suo lavoro?

“L’agricoltura, che è la prima fase di produzione del cibo, è al centro degli impatti ambientali. Da un lato subisce gli stessi impatti del cambiamento climatico, dall’altro è responsabile dell’emissione di gas che producono l’effetto serra. Ha quindi un duplice ruolo: da un lato subisce il cambiamento climatico, dall’altro può favorirlo. È pertanto importante capire quali sono gli impatti dell’agricoltura e della produzione di cibo sull’ambiente e cercare di ridurli. Ed è importante che il consumatore finale sappia quali sono questi impatti. Noi abbiamo fatto una carrellata di quelli che oggi sono gli indicatori disponibili sviluppati dalla scienza per poter misurare gli impatti della produzione del cibo. Oggi esistono la Carbon Footprint, che misura le emissioni di gas a effetto serra generate dalla produzione di un alimento, la Water Footprint, che dice quanta acqua viene consumata o inquinata per produrre un determinato alimento e l’Ecological Footprint, che evidenzia quanta terra o risorse in generale sono necessarie per produrre un determinato prodotto alimentare. La metodologia LCA (Life Cycle Assessment) ci permette di analizzare questi indicatori esaminando l’intero ciclo di produzione. Per esempio, parlando del pane, abbiamo recentemente pubblicato uno studio che esamina tutto il ciclo di vita partendo dalle materie prime come la produzione dei semi di grano da seminare, le lavorazioni fatte al terreno, le operazioni agronomiche eseguite durante la crescita del grano, la fase di raccolta, la macinazione del chicco in farina, la lavorazione della farina fino al forno, quindi il prodotto finito, e poi il trasporto: tutte le fasi, insomma, che portano il prodotto fino alla nostra tavola. Uno studio simile è stato pubblicato sempre dal nostro gruppo anche per la produzione vitivinicola. Con questo LCA andiamo dunque a vedere tutto il ciclo di vita del prodotto e possiamo calcolare l’impronta di carbonio, impronta idrica e impronta ecologica. Purtroppo questi indicatori spesso non vengono poi però tradotti sulle etichette. Oggi si parla quasi esclusivamente di trasporto quando leggiamo “prodotto a km zero”, ma non di molto altro. Noi, come scienziati e ricercatori, siamo spesso consultati da molte aziende e abbiamo molti progetti in atto, ma al consumatore di solito non arriva ancora questa informazione”.

L’olio di palma, che negli ultimi anni, è stato al centro di molte polemiche. Cosa ci può dire in merito?

“Su molti prodotti del settore agroalimentare italiano abbiamo visto comparire il claim “senza olio di palma”. Dal punto di vista ambientale, questo però non vuole dire niente. Si tratta praticamente di una non-informazione. Dovremmo chiederci, invece, questo: l’olio di palma è stato sostituito con qualcosa? Se sì, con cosa è stato sostituito? Dovremmo andare a vedere qual è l’impatto ambientale dell’olio di palma e confrontarlo con l’impatto ambientale dell’olio o del grasso col quale è stato sostituito. All’olio di palma infatti è stata attribuita una grande responsabilità in passato, perché nei decenni scorsi la sua produzione è stata sicuramente una delle cause principali di deforestazione di gran parte dei territori dell’Indonesia, della Malesia e di molti altri territori del mondo. Il problema è capire quale possa essere un degno sostituto dell’olio di palma: un sostituto che non comporti anch’esso impatti ambientali notevoli. Quel che ci si aspetta è che, siccome l’olio di palma ha rese elevate, se oggi esso venisse coltivato con tecniche sostenibili (che non prevedano, cioè, la deforestazione), probabilmente avrà un impatto minore degli altri grazie al fatto di poter avere grandi quantità di prodotto su una piccola superficie. Quindi spostandoci su un altro olio, che va a sostituire l’olio di palma (come l’olio di colza, di girasole o di mais o altri), si può correre il rischio di dover avere ancora più terra a disposizione. Quindi, utilizzando altri oli al posto dell’olio di palma, probabilmente andremmo a spostare, e forse ad amplificare, il problema. Ecco perché un’adeguata consapevolezza da parte del consumatore finale risulta di fondamentale importanza”.

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